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La paura di parlare in pubblico
Tutti noi comunichiamo.
E generalmente lo sappiamo fare abbastanza bene quando stiamo con un’altra persona o in un piccolo gruppo di gente conosciuta.
Ma se ci chiedono di tenere una conferenza o, semplicemente, di intervenire a una riunione, per molti di noi è il panico.
Perché?
A questa domanda, quelli che hanno difficoltà a parlare in pubblico di solito rispondono così:
- “Non ho niente di interessante da dire…”
- “Ho paura di impappinarmi e arrossire…”
- “Non mi piace stare al centro dell’attenzione…”
- “Nessuno mi ascolterà…”
- “Non sono all’altezza…”
- “Non mi piace la mia voce (o il mio accento)…”
Sul primo punto posso rispondere subito: trovare qualcosa di interessante da dire su quasi qualunque argomento è piuttosto facile. Ci vuole solo un po’ di tecnica e di questo parleremo più avanti…
Possiamo eliminare anche l’ultima obiezione: di fronte a un buon discorso nessuno fa caso alla voce o all’accento.
Ma la paura di parlare in pubblico ha le sue ragioni, perché si tratta veramente di una delle forme di comunicazione più complesse…
Parlare in pubblico è difficile
Perché parlare in pubblico è oggettivamente più complesso di una comunicazione tra poche persone?
I motivi principali sono tre.
In primo luogo, in un piccolo gruppo le persone parlano a turno: a ogni messaggio segue una risposta e il ciclo si ripete finché dura la conversazione.
Semplificando, si può dire che la responsabilità del successo è condivisa fra tutti.
Inoltre se qualcosa non va, per esempio un concetto incomprensibile, c’è immediatamente una richiesta di chiarimento e il problema si risolve. A volte basta guardare in faccia il nostro interlocutore per interpretare le sue reazioni.
Infine c’è il fattore tempo. In una conversazione nessuno dei partecipanti parla per più di un minuto o poco più, ed è facile mantenere l’attenzione.
E quando parliamo in pubblico?
Osserviamo che:
- La responsabilità del successo va a una persona sola, cioè a noi.
- È più difficile (ma, come vedremo, non impossibile) capire come l’uditorio accoglie quello che diciamo.
- Parliamo per molto più tempo, fino a qualche decina di minuti. E questo si scontra con un limite intrinseco della nostra mente: la difficoltà a prestare attenzione a lungo.
Vediamo più in dettaglio il problema dell’attenzione…
La curva dell’attenzione
Dalla scuola in poi, è un’esperienza che riguarda tutti: ascoltando qualcuno che parla, dopo un po’ smettiamo di seguire. O ci viene sonno.
Alcune misurazioni mostrano che l’attenzione è massima all’inizio di un discorso o una lezione, poi dopo i primi 6-7 minuti scende velocemente per una ventina di minuti. A questo punto risale per un po’, ma non sempre.
A cosa dobbiamo la repentina caduta?
A prima vista, il nostro cervello sembra avere un interruttore a tempo, ma non è proprio così.
Il problema nasce da alcune caratteristiche del funzionamento mentale:
- La mente riesce con molta difficoltà a seguire più stimoli contemporaneamente. Per questo qualunque elemento estraneo (compresi rumori in sala, malesseri fisici e preoccupazioni), distoglie dall’ascolto e, spesso, fa perdere il filo del discorso.
- Il pensiero non è lineare, ma procede per associazioni, per cui di fronte a un’idea o un’immagine mentale, tende a “scappare” seguendo i propri collegamenti. Per cui una conferenza sulle Piramidi ci fa pensare in maniera quasi automatica alle vacanze nel Mar Rosso.
- Le informazioni percepite per essere veramente capite devono essere continuamente decodificate e incasellate in schemi mentali più articolati.
Insomma, l’ascolto è un lavoro che richiede uno sforzo costante.
Per evitare i problemi di attenzione qualcuno suggerisce di limitare i discorsi a pochi minuti, ma non è questa la soluzione. Per fortuna l’attenzione dipende moltissimo:
- dall’interesse per l’argomento;
- dalla relazione col pubblico.
Parleremo a lungo della scelta degli argomenti. Per ora concentriamoci sul secondo fattore che trascuriamo spesso, ma è decisivo…
Non si può non comunicare
Cosa vuol dire “comunicare”?
Il termine ha molti significati, ma qui ce ne interessa uno in particolare: comunicare equivale a modificare il comportamento dell’interlocutore.
Qui il termine “comportamento” va inteso in senso ampio: comprende azioni, parole e anche pensieri.
Vuol dire che tutte le volte che provochiamo negli altri un comportamento qualsiasi stiamo comunicando.
Come puoi notare è una definizione molto più ampia di quella che si adotta di solito. Con una conseguenza importantissima: se siamo in relazione con qualcuno, non comunicare è semplicemente impossibile:
- Comunichiamo con le azioni.
- Comunichiamo con le parole.
- Comunichiamo con un sorriso.
- Ma comunichiamo anche con il silenzio. O con l’assenza!
Non ti convince?
Prova a pensare a una conferenza in cui il relatore non si presenta.
Passa un quarto d’ora e tutti si agitano, molti protestano o se ne vanno, qualcuno si preoccupa e gli organizzatori si attaccano al telefono… Hanno modificato il loro comportamento.
E possiamo dire, dal nostro punto di vista, che il conferenziere ha comunicato…
Sì, ma cosa ha comunicato?
Comunicazione e relazione
Se osserviamo due persone che parlano, notiamo che si scambiano messaggi.
Partiamo da un caso piuttosto banale. I due si incontrano e il primo dice: “È un po’ che volevo parlare con te”.
È una atto comunicativo semplice semplice, che contiene non uno ma due messaggi:
- Il primo è una “notizia”, che si potrebbe tradurre più o meno così: “Ho passato un tempo soggettivamente considerevole a cercare di incontrarti”.
- Il secondo, invece, è un tentativo di definire la relazione tra i due.
Per capire il contenuto di questo secondo messaggio, che chiamiamo “messaggio relazionale”, dobbiamo prima conoscere il rapporto tra i due. Lavoriamo di fantasia e facciamo qualche ipotesi:
- I due avevano un appuntamento e il secondo è in ritardo: la frase è un evidente rimprovero.
- I due sono colleghi che effettivamente non si vedevano da tempo: la frase è una manifestazione di attenzione e considerazione.
- Il primo è il datore di lavoro del secondo, che non si è presentato in ufficio senza dare notizie di sé: la frase anticipa una severa paternale.
- Il primo è un poliziotto e il secondo un ricercato: la frase contiene il senso del trionfo per l’imminente cattura.
Riassumendo: ogni comunicazione contiene sempre un aspetto relazionale che, a sua volta, è comprensibile solo se conosciamo la relazione tra gli interlocutori.
Infatti, noi, osservatori esterni di questo inizio di dialogo, non sappiamo bene quale ipotesi scegliere, ma chi è coinvolto nella relazione di solito capisce benissimo.
Anche perché può far riferimento a due diversi canali di comunicazione…
Comunicazione analogica e digitale
Dice il saggio: “Vale più un’immagine di mille parole. Soprattutto come messaggio relazionale!”
Gli esseri umani comunicano attraverso due canali.
Il primo è chiamato “simbolico”, perché usa simboli codificati come lettere e cifre.
L’esempio tipico è il linguaggio, scritto e parlato, la più grande invenzione dell’umanità: se usato bene, è potente, preciso, razionale e non si presta ad alcuna ambiguità.
Se diciamo che in Italia ci sono 21 regioni, sono proprio 21 non una di più né una di meno.
È evidente che il canale simbolico funziona molto bene per veicolare il messaggio-notizia.
Ma ha un difetto: richiede un lungo periodo di apprendimento perché tra simbolo e significato non c’è alcun rapporto diretto.
Per fortuna c’è un secondo canale che chiamiamo analogico: ne fanno parte le immagini, i suoni, la musica, ma anche il tono della voce, la postura, l’espressione del viso.
Si chiama analogico perché il messaggio ha qualche analogia con il suo significato: l’immagine di una rosa assomiglia a una rosa molto più del nome “rosa” scritto a caratteri cubitali.
Una comunicazione analogica si comprende immediatamente, senza bisogno di imparare un linguaggio. Però è imprecisa e si presta a equivoci. Se sentiamo un neonato piangere, capiamo subito che qualcosa non va, ma ci vuole parecchio per sapere se ha paura, ha freddo, ha fame o ha bisogno di essere cambiato!
Il canale analogico si presta particolar mente bene per trasmettere messaggi relazionali.
È inutile aggiungere che per parlare efficacemente in pubblico bisogna usare al meglio entrambi i canali!
Riassumendo…
Riepiloghiamo mettendoci nei panni di chi deve parlare in pubblico:
- Sappiamo che non si può non comunicare e quindi comunichiamo indipendentemente dalla nostra volontà. Come hai visto, anche se all’ultimo momento ci rifiutiamo di salire sul palco il messaggio arriva lo stesso.
- Oltre al messaggio-notizia dobbiamo gestire, usando abilmente i canali simbolico e analogico, anche quello relazionale.
Siamo simpatici o antipatici, ci poniamo su un piano di parità, marchiamo la nostra superiorità o, peggio ancora, sottolineiamo il nostro senso di inferiorità (cosa imperdonabile per un conferenziere)?
Aggiungo un altro aspetto, che devi tenere sempre a mente: soprattutto per quel che riguarda il messaggio relazionale: non conta quello che abbiamo intenzione di trasmettere, ma quello che arriva ai nostri interlocutori.
Volevi apparire competente e ti hanno trovato insopportabile? È questo che conta. Vuol dire che hai sbagliato qualcosa…
Per certi versi le preoccupazioni chi deve parlare in pubblico sono più che giustificate! E per questo che dovremo curare molto bene sia quello che diciamo, sia il modo in cui lo diciamo!
Ne parleremo a lungo…
(Vindice Deplano, Mauro Mirti)